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Vita.it: "Ucraina: luci e ombre del sistema di accoglienza"

 Condividiamo di seguito l'articolo scritto da Sabina Pignataro sul sito VITA (CLICCARE QUI PER APRIRE DIRETTAMENTE L'ARTICOLO)

                                 

                                                                    "Ucraina: luci e ombre del sistema di accoglienza"

Sei mesi dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina, proviamo a fare un’analisi di come ha funzionato l’accoglienza dei profughi in Italia. Dopo l’entusiasmo iniziale, in cui migliaia di italiani si sono detti disponibili ad accogliere, quante sono state le convivenze attivate e quante quelle ancora in essere? Secondo Refugees Welcome, il 60% delle accoglienze in famiglia è terminato. L’estate è stato uno spartiacque: alcuni hanno lasciato l’Italia per tornare in Ucraina. Qualcuno, dicono i primi segnali, sta pensando di (ri)tornare nel nostro paese dopo l’escalation delle ultime settimane. Nel frattempo, la Commissione Europea ha prolungato fino a marzo 2024 la Direttiva sulla protezione temporanea (2001/55)

All’inizio: porte spalancate, sull’onda dell’entusiasmo

All’inizio, ne abbiamo memoria, gli italiani non si sono girati dall’altra parte, tra chi si è messo per strada ed è andato alle frontiere a caricare conoscenti o sconosciuti; chi ha portato cibo, vestiti, farmaci, «con quel senso di accoglienza che è l’orgoglio del nostro Paese», per ricordare le parole dell’allora presidente del Consiglio Mario Draghi. Mai si era vista tanta mobilitazione attiva per l’accoglienza. Di organizzazioni, ma anche di singoli cittadini. In migliaia hanno offerto la disponibilità a spalancare le porte delle proprie case, con il supporto di organizzazioni specializzate. Un movimento spontaneo, emotivo. Talvolta un po’ confuso. «Nelle prime settimane di marzo abbiamo ricevuto più di mille disponibilità da parte di milanesi, pronti ad accogliere», racconta Chiara Fiocchi, responsabile del programma di accoglienza Ucraina di Refugees Welcome. «Con una procedura più rapida di quella che adottiamo normalmente, abbiamo fatto una scrematura delle domande ricevute, rigettandone circa il 50per cento, ritenendole non idonee per una serie di motivi. Dopodiché, in questi sei mesi, abbiamo avviato 125 progetti di accoglienza in famiglie milanesi». Refugees Welcome però non ha solo abbinato le famiglie. Ha creato una rete di supporto e proprio questa rete è l’elemento dirimente che ha condizionato, se non proprio determinato, la riuscita dell’accoglienza. «Abbiamo offerto un supporto ai nuclei accoglienti, affinché fossero sostenuti nell’espletamento delle procedure burocratiche, diplomatiche, amministrative. Ma abbiamo anche offerto supporto laddove ci veniva segnalata una difficoltà, una fatica relazionale all’interno delle abitazioni».

Forme di accoglienza auto-organizzate

Ci sono state però come si diceva, anche forme di accoglienza più repentine, di famiglie che hanno contattato le ambasciate, i consolati, le parrocchie, e nel giro di poche ore, una manciata di giorni, hanno accolto in casa delle persone in fuga dall’Ucraina: si è trattato quasi sempre di madri con figli o nonne. Tra le prime in Italia, la famiglia Frassinelli di cui abbiamo scritto qui.

In questa seconda modalità di accoglienza, più destrutturata, l’accoglienza è stata più faticosa. Che non significa sgradevole. «Le cinque persone cha abbiamo accolto a marzo ora non vivono più con noi», racconta Mauro Rizzi. «Ripensando a questa esperienza provo un mix di emozioni: ho amato la solidarietà degli amici, l'amore, la convivenza; sono stato spesso in dubbio su quale fossero i limiti entro cui agire, dire o non dire qualcosa. Mi sono interrogato sulle differenze culturali, quelle educative. Di base rimane che si sono messe al sicuro delle persone in un momento difficile e pericoloso. E che rimane l'esperienza più bella e forte mai fatta, che rifarei con una condizione: una famiglia può sostenere questa situazione al massimo 1 mese, o per lo meno con un tempo stabilito e definito con delle regole precise. Altrimenti se non si è molto forti si rischia di sfasciare tanti altri equilibri all’interno della propria famiglia».

Parole oneste. Che riflettono tutta la complessità dell’esperienza che si rifiuta di essere inserita dentro due categorie dicotomiche: è stata bella/ è stata brutta; oppure ha funzionato/non ha funzionato.

Elisa è un’altra giovane donna che ha aperto casa propria sull’onda dell’emotività, senza aver mai desiderato prima intraprendere un’esperienza simile. «All’inizio quando questa mamma e sua figlia sono arrivate abbiamo fatto l’impossibile per loro. Non solo noi, ma anche i nostri famigliari, gli amici, i colleghi, i vicini di casa. Dalla raccolta degli abiti, per loro scappate solo con una borsetta, alla ricerca della scuola per la bimba, dei documenti, del visto, del medico, del lavoro. Poi, ad un certo punto, con il trascorrere dei mesi, è nata dentro di me un’emozione simile al rancore, all’irritazione: ho cominciato a domandarmi “cavoli, io sto faticando parecchio per tenere in piedi la mia famiglia, la loro, la casa che abitiamo insieme, ma perché almeno non ci danno una mano a sparecchiare la cena e perché non si puliscono almeno la stanza che gli abbiamo dedicato?”. Mi sono vergognata di averlo pensato, rimproverandomi il fatto di non essere abbastanza solidale, abbastanza empatica, abbastanza buona. In fondo loro scappavano da una guerra e avevano perso tutto. Poi ho fatto pace con questo mio sentire, prendendo consapevolezza che l’accoglienza non è un percorso facile. E non è un percorso che si fa da soli. Perché l’entusiasmo e le proprie energie, ma anche risorse (intendo personali, non solo in termini economici o di comunità) non sono sufficienti. Come quando si vuole curare il male dell’altro senza essere medico, cioè senza averne gli strumenti».

In estate i viaggi di ritorno

Non sono mancati i racconti di quanti, a cavallo dell’estate, hanno intrapreso un viaggio di ritorno, verso casa. C’era l’esigenza di difendere il proprio lavoro, di rimettere in piedi quello che restava della casa e della propria famiglia. C’era la sensazione, comune a molti, come racconta Giovanna Bianco, psicologa dell’emergenza di Emergency che ha raccolto molte parole (stati d’animo, emozioni) degli ucraini in fuga, che «fosse meglio resistere tra le macerie, piuttosto che vivere in sospeso nei container dei centri d’accoglienza o nelle famiglie». Perché di fondo, tra i profughi di questo conflitto, è sempre stata parecchio condivisa l’idea che quello in Italia fosse solo un pit-stop, una pausa, per non morire sotto le bombe, in attesa che il conflitto si placasse. Un conflitto che molti non si attendevano sarebbe durato così a lungo.

Refugees Welcome: il 60% delle accoglienze in famiglia è terminato


«Dall’inizio del conflitto, con risorse della nostra Associazione, abbiamo ospitato circa 500 persone su tutto il territorio nazionale», spiega Valentina La Terza, program manager di Refugees Welcome Italia. Entrando nello specifico, «delle 125 accoglienze attivate a Milano da marzo ad oggi, solo 52 sono ancora attive», chiarisce Chiara Fiocchi. «Degli altri 70 nuclei (pari al 60% circa) possiamo dire che quasi la metà siano tornati in Ucraina o stiamo temporeggiando in Polonia: un paese abbastanza vicino per andare a controllare un parente, un’abitazione o sbrigare altre pratiche. Alcuni, ma pochi, sono quelli che si sono trasferiti in altri Stati europei. Un paio quelli che hanno avviato un proprio percorso di autonomia a Milano, prendendo in affitto una propria abitazione». Sebbene sia difficile fare previsioni, prosegue l’esperta, «ci viene facile immaginare che i 52 progetti ancora attivi proseguiranno fino all’estate prossima, o almeno fino al termine dell’anno scolastico. Sono per lo più di famiglie che hanno inserito i propri figli a scuola e che nel frattempo hanno almeno iniziato a frequentare un corso di italiano o si sono rese disponibili per lavorare. Per loro la permanenza in Italia è declinata al futuro».

Protezione estesa fino al 2024

Nel frattempo, la Commissione Europea ha prolungato fino a marzo 2024 la Direttiva sulla protezione temporanea (2001/55), attivata all'indomani dell'invasione dell’Ucraina, che consente a chi proviene dal Paese in guerra di risiedere legalmente negli Stati membri dell’Unione Europea. «Molti degli ucraini che hanno richiesto la protezione temporanea ora stanno tornando a casa, perché vorrebbero ricostruire il loro Paese e noi ne siamo contenti» ha spiegato a Euronews la commissaria europea agli Affari interni Ylva Johansson. Al momento dovrebbero disiscriversi dalla protezione temporanea, ma molti di loro sono riluttanti a farlo, perché pensano che potrebbero aver bisogno di fuggire di nuovo in futuro». Con questa nuova decisione dell’esecutivo comunitario, invece, la protezione viene estesa di un anno e resterà inoltre attiva anche per coloro che, dopo averla ottenuta, decidono di fare ritorno alle proprie città. In questo modo, continua la Commissaria, «non sarà necessario annullare la registrazione, solo notificare che si sta uscendo dall'Unione Europea per tornare a casa. Bisognerà avvisare, ma non riconsegnare il permesso di soggiorno».

Per questo motivo, forse, non ci è stato possibile avere il numero esatto di quanti siano i profughi che non sono più sul territorio italiano.

A Ottobre, di nuovo viaggi per l’Italia

Con l’inasprirsi dei bombardamenti, in questi primi giorni di ottobre, si intravedono i segnali di quella che potrebbe essere una nuova migrazione di persone che ricominciano a scappare dall’Ucraina. Lo testimonierebbero le nuove file di auto ai rifornimenti di benzina lungo i confini (del tutto simili a quelli registrati a febbraio- marzo) e lo confermerebbero alcune prime telefonate ricevute da Refugees Welcome. «Alcuni ci stanno contattando chiedendo: “qui è un disastro. Abbiamo paura. Se tornassi in Italia, mi aiuteresti ancora?” oppure “quella famiglia sarebbe di nuovo disposta ad accogliermi”? Sono piccoli indizi, ma penso che presto, se non si troverà un accordo che metta fine all’escalation russa, ci troveremo di nuovo di fronte ad un’ondata migratoria, anche se dai numeri meno significativi della prima».

Nel frattempo come si è organizzata l’accoglienza?

Questo è un tema pieno di insidie. Come avevamo denunciato in questo articolo del 24 agosto nei sei mesi dall'inizio del conflitto, in Italia sono arrivate poco meno di 160mila persone dall'Ucraina, per lo più donne e bambini. Ma l'applicazione delle normative sta creando parecchi problemi a famiglie ed enti: sinora sono state firmate soltanto 9 delle 20 richieste di convenzione da parte del Terzo settore approvate dalla competente Commissione. «Noi eravamo pronti da giugno, invece la macchina è partita con due mesi di ritardo, nel periodo più anomalo dell’anno», aveva spiegato Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell’Arci e coordinatore del Tavolo asilo e immigrazione.
Come raccontavamo in questo articolo, il contributo per 90 giorni per chi in Italia ha trovato autonomamente una sistemazione era previsto per 60mila persone: a metà agosto erano stati autorizzati già 61mila pagamenti. Ora si autorizza una nuova tranche, con tempi strettissimi per presentare domanda (era il 30 settembre). La copertura? 36 milioni di euro che erano stati stanziati per l'accoglienza diffusa e non sono stati utilizzati, visto che le convenzioni sono partite solo ad agosto

I numeri di oggi

Come si può vedere analizzando il sito della Protezione Civile oggi, 11 ottobre, sono 171 mila le persone provenienti dall'Ucraina in ingresso in Italia , di cui quasi 50 mila minori. La curva, che tiene conto dei controlli quotidiani effettuati dalla Polizia di Frontiera e dalla Polizia Ferroviaria, non mostra una decrescita. Le persone che hanno presentato domanda di protezione temporanea sono 158 mila.

L'accoglienza, però, è passata soprattutto da canali informali, tanto che anche su un segmento di popolazione specifico e super-attenzionato come quello dei minori stranieri non accompagnati, secondo i dati del Minostero del Lavoro e delle Politiche Sociali sui 5.430 minori ucraini registrati come "non accompagnati" al 31 agosto 2022 solo 879 (16,2%) erano collocati in strutture e ben 4.551 (l'83,8%) erano accolti presso famiglie.

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